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Identificazione – Il mondo della delusione

di J.G.BENNETT

 Estratto da Deeper man pagg. 170 – 173

L’identificazione gioca un ruolo importante nella psicologia gurdjieffiana. Compare molte volte nei libri di Ouspensky Frammenti di un insegnamento sconosciuto e La psicologia dell’evoluzione possibile per l’uomo. E’ uno dei primi concetti che mi venne presentato quando entrai per la prima volta in contatto con questo insegnamento. L’identificazione è una falsa libertà, l’illusione della libertà, nella quale ci sentiamo liberi perché stiamo facendo ciò che vogliamo fare. Invece di trovare noi stessi, perdiamo noi stessi in ciò che stiamo facendo; e a quel punto ciò che stiamo facendo può anche essere libero, ma noi siamo in schiavitù. Possiamo anche perderci in ciò che stiamo facendo anche se non è quello che vogliamo, anche quando è una cosa riguardo alla quale non abbiamo scelta. Quando siamo in questo stato sentiamo che qualsiasi interferenza con ciò che stiamo facendo è un attentato alla nostra libertà. Se, diciamo, stiamo cucinando in cucina, diventiamo così eccitati e così identificati con quello che stiamo facendo, che se viene qualcuno e ci dice che non lo stiamo facendo nel modo giusto, ci offendiamo e sentiamo che sta interferendo. Pensiamo che la nostra libertà consista nel farlo a modo nostro, mentre qualsivoglia libertà abbiamo avuto, l’abbiamo gettata via, ed avendo la possibilità di essere liberi di fare qualsiasi cosa, abbiamo scelto di diventare schiavi. Quando siamo identificati, è esatto dire che non siamo più affatto noi stessi, perché abbiamo trasferito il nostro senso della nostra realtà a qualcosa al di fuori di noi stessi. Arriviamo a tal punto di farlo apparire una cosa positiva, l’identificarsi, lodando un uomo tutto preso dal suo lavoro, o spendendo enormi quantità di danaro per l’ultimo libro o film sensazionale, cioè in gradi di darci un’identificazione. Diveniamo schiavi di tutto ciò che facciamo, schiavizzati da tutte le persone che incontriamo, dalle situazioni in cui ci veniamo a trovare, e tuttavia c’è questa terribile assurdità, che in tutto ciò pensiamo di essere liberi.

 Per esempio, può avvenirci di lottare con noi stessi, di cercare di trattenere l’espressione di un qualche stato negativo, mentre dentro, ribolliamo. Poi improvvisamente ci lasciamo andare, e mentre sul piano oggettivo stiamo buttando via tutto quello che avevamo guadagnato facendo quello sforzo, ci sentiamo meglio, ci sentiamo liberi, e giustifichiamo il tutto dicendo che abbiamo voluto essere sinceri. Abbiamo permesso che questa triade negativa ci dominasse, e tuttavia ci sentiamo bene, ci sentiamo meglio, perché non sospettiamo nemmeno che tali stati negativi non hanno alcun posto in chiunque aspiri all’appellativo di uomo.

Come altro esempio, questo stato lo scopriamo molto chiaramente in noi nei riguardi di ciò che possediamo. Noi tutti abbiamo qualcosa che possediamo e a cui siamo attaccati, come si dice, o meglio con cui ci identifichiamo, e se c’è il pericolo che si perda, per noi è peggio che se perdessimo noi stessi. Mi ricordo un esempio di ciò che mi colpì molto, e che ebbe luogo molto, molto tempo fa, quando ero in uno dei gruppi di Ouspensky. Stavamo parlando delle difficoltà che incontravamo a ricordare noi stessi, e lui disse che per ricordare dovevamo avere qualcosa che ci facesse ricordare. Continuò col dire che per avere questo qualcosa dovevamo sacrificare qualcosa che ci era prezioso, allontanare da noi qualcosa cui tenevamo. Una donna gli disse che stava arrivando alla disperazione, che erano svariati mesi che cercava di fare qualcosa e non era riuscita a fare nulla. Lui le disse che doveva guardare in casa e trovare qualcosa a cui teneva e sacrificarla.

 Lei sembrò molto imbarazzata per un momento, poi disse: “Be’, a dire la verità, a casa ho un bellissimo vecchio servizio da tè che ho ereditato completo da mia madre, e a cui sono attaccata”. La sua risposta fu: “Rompa una delle sue tazze di porcellana e ricorderà se stessa”.

La settimana dopo, lei venne in uno stato autenticamente isterico, dicendo: “Sono stata molto turbata da quello che ha detto riguardo alle mie tazze di porcellana. Non potrei rompere una tazza di porcellana neanche se fosse per salvare la mia anima”. La sua risposta fu semplicemente: “Vede cosa significa l’identificazione?”.

 I nostri rapporti personali sono costantemente rovinati dal fatto che siamo identificati con le persone e con ciò che esse possono pensare o provare per noi. Basta che una persona faccia il minimo piccolo gesto ed il nostro mondo interno si riempie d’ogni sorta di reazioni emotive. Qualsiasi cosa può essere esagerata fino all’assurdo. Una parola di critica, e pensiamo di essere un odiato reietto. Un cenno d’assenso e crediamo d’esser riconosciuti per saggi o eminentemente importanti. In tutto questo, nessun altro ci ha fatto identificare. L’abbiamo fatto da soli.

 Quando qualcosa ci scuote dallo stato di identificazione, c’è un qualcosa di molto spiacevole nel renderci conto di quanto ci eravamo persi; non possiamo sopportare di riconoscere la verità. Quando siamo identificati la nostra visione del mondo è terribilmente ristretta. Il momento presente si riduce ad un punto. Ma quando siamo totalmente identificati, completamente persi, crediamo di essere liberi al massimo, di vedere tutto ciò che è reale. Inizialmente quando incontriamo questo concetto, ci è quasi impossibile accettare davvero che noi possiamo identificarci: gli altri, si, ma non noi. Una volta che invece lo abbiamo realmente visto in noi, una volta assaggiata l’amara realtà della cosa, non ci è più possibile guardare noi stessi come facevamo prima. Non possiamo più “dormire tranquilli” come dice Gurdjieff. Ecco perché l’osservazione di sé deve essere intrapresa con la ferma volontà di non fermarsi di fronte a nessuna barriera, di non sfuggire ad alcunché si scopra e di non mancare di seguire le inferenze che inevitabilmente discendono da ciò che si è visto.

 Quando lavoravo in uno dei gruppi di Ouspensky, ci incontravamo una sola volta alla settimana, ma trascorrevamo mesi ad anche anni a cercare di arrivare ad una comprensione di come queste leggi negative agivano in noi, e come, una volta capito il loro funzionamento, potevamo superarlo, come potevamo metterci sotto l’influsso di leggi superiori. In realtà non vi sono due approcci diversi per questo lavoro, uno che affronti le leggi negative e uno che affronti le leggi superiori, le leggi essenziali. Ogni volta che, attraverso la lotta con i nostri stati negativi, arriviamo al punto in cui siamo capaci di separare noi stessi da noi stessi e osservare noi stessi in modo imparziale, non solo arriviamo a capire in che modo le leggi inferiori operano in noi, ma anche, allo stesso tempo, stiamo creando in noi un posto libero dalle loro influenze, operante secondo leggi diverse. E d’altra parte, ogniqualvolta ci avviciniamo ad uno studio teorico delle leggi superiori, delle leggi dell’essenza, che non è fondato sul lavoro su noi stessi, quali che possano essere le nostre sensazioni soggettive , non stiamo sperimentando l’azione delle leggi superiori ma solo l’azione della nostra immaginazione.

 Gurdjieff affermò più di una volta che questo insegnamento ha origine da una fonte consapevole. Per comprenderlo, dobbiamo essere capaci di avvicinarci ad esso in modo consapevole, di avvicinarci ad esso per mezzo e non a partire da il meccanismo del nostro sé ordinario. Possiamo affermare che l’intero tema delle leggi negative è di immensa importanza per una comprensione della psicologia del nostro possibile sviluppo, purché, naturalmente, a tutto ciò ci si avvicini nel modo giusto, cioè in termini pratici, nei termini delle nostre negatività e delle nostre meccanicità. E per quanto siamo solo noi stessi l’unico soggetto adeguato di questo studio, non è qualcosa che possa essere fatto da soli.

 Copyright – J.G.Bennett e Elizabeth Bennett



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